Oltre l’erba
spiriti, visioni e medicina in tempi di solstizio
la necessità di un nuovo passo: invitare le differenti credenze degli uomini a scendere in campo aperto per un nuovo dialogo dialogale, anche nel caso in cui essi, per comprensibili ragioni, rifiutassero l’etichetta di religione. […] se quelle vie che intendono migliorare la presente condizione umana potessero riunirsi in uno sforzo reciproco e senz’armi (intenzioni) nascoste, vale a dire inconfessate, allora potremmo forse scoprire uno dei compiti fondamentali e permanenti della religione – e della laicità, intesa come secolarità sacra: aiutare l’uomo a raggiungere la sua pienezza.
(Raimon Panikkar)
Di recente ho partecipato all’evento “Sogno di una notte di mezza estate”, un cerchio di condivisione e celebrazione in occasione del solstizio, organizzato da DreamWisdom e Quantum Salus. In questa occasione ho tenuto una conferenza dal titolo: “Oltre l’erba: spiriti, visioni e medicina tra differenti paradigmi della percezione”.
Ero in ottima compagnia e non posso che ringraziare la Vita per la bellissima esperienza e la condivisione. Ero insieme a Rossana Becarelli, Alberto Fragasso, Daniela Bartolini, Valeria Boisser, Cinzia Galletto e Matteo Michettoni.
La riflessione che riporto nasce come conferenza per l’incontro, ma si radica in un cammino che porto avanti da anni, tra i popoli del Guatemala e del Messico, nei corsi di etnoerboristeria, nei viaggi… Il filo che unisce tutto questo?
Sostenere la diffusione di una nuova cultura ecocentrica - una cultura che già esiste, anche in Occidente, e che dobbiamo solo smettere di ignorare. Come dicono gli zapatisti: Otro mondo ya existe y se llama pueblos originarios.
La natura non è una risorsa. È coscienza.
Credo nel profondo che l’Occidente si stia uccidendo - e stia uccidendo tutto ciò che lo circonda - perché ha dimenticato la sacralità della natura. E quando parlo di “sacralità”, non intendo (necessariamente) un ritorno romantico ai tempi antichi - anche se confesso che una parte di me lo auspica. Ciò che intendo è un cambio radicale di sguardo, così come ripeto in tutti i miei articoli. Non vedere la natura come risorsa da proteggere, perché questo è lo stesso paradigma che la legge come risorsa da sfruttare. Non trattarla come sfondo scenico su cui avvengono le vicende umane, ma riconoscerla come co-protagonista, o meglio ancora, come personaggio principale di cui noi siamo i co-protagonisti.
Nel tempo trascorso tra i popoli nativi – in particolare con i Maya – ho sperimentato direttamente il contatto con la coscienza che anima la creazione. Ma sono anche un uomo occidentale, figlio del relativismo (di quello sano, non di quello etico), e accetto che non tutti condividano la mia visione. Alcuni non credono agli spiriti, né al Grande Spirito. Va bene così. Ma il punto è un altro: certe esperienze - visioni, guarigioni, intuizioni - accadono lo stesso, a prescindere dalle credenze. La natura ci nutre non solo con ossigeno, cibo e materia, ma anche con simboli, sogni, intuizioni. Anche per le menti più razionali, questa è la soglia in cui la scienza incontra il mistero.
Le piante non sono trip. Sono alleate spirituali.
Un acknowledgement specifico lo merita l’ispiratrice (meglio: l’autrice) del mio intervento. L’idea originale per il quale fui coinvolto in Sogno di una notte di mezza estate, era quella che portassi il tema dell’erboristeria tradizionale (magari parlando di specifiche tradizioni italiane che somigliano molto a quelle del curanderismo), ma non mi sentivo comodo. Tutto sommato, ogni anno mi lamento delle distese di iperico che vengono estirpate senza ritegno da hebralisti parvenu o degli infiniti video di Instagram sulla guazza di San Giovanni. Ogni anno al 24 giugno si necessitano canotti cybernetici per sfuggire alle guazze nelle stories. Per questo motivo, ad un certo punto ho consultato la Salvia divinorum (con pratiche di visualizzazione e viaggio dello spirito, che vi credete?!) al fine di avere delucidazioni direttamente dal mondo delle erbe, che ha stravolto la struttura dell’intervento e mi ha invitato a parlare dell’intelligenza vegetale e dell’erba come lasciapassare per il regno del simbolo, laddove - secondo le culture indigene - si annidano i veri pericoli per l’essere umano e la salute.

Le piante maestre non sono strumenti per sballarsi, ma porte verso intelligenze non umane, presenze sacre, spiriti viventi. Lo sono anche le piante che non danno visioni - ma una cosa ci tengo sempre a precisare, quando tocco l’argomento. Anche se non sono obbligatorie nel cammino verso la Coscienza, le piante psicoattive, se usate bene, portano in un mondo che a me piace chiamare “il mondo oltre il linguaggio”, perché non esiste nessuna parola adatta a descriverlo.
Le piante psichedeliche rivelano un’unica grande allucinazione: l’idea che esista solo quello che percepiamo nello stato di coscienza in cui ci troviamo ordinariamente, che è un’illusione generata dalla mente cognitiva. Un’illusione utile, anche bella a tratti, ma comunque illusoria, come qualunque percezione. (Questo è anche uno dei motivi per cui non amo il termine moderno “enteogeno” - che porta il dio dentro - mi ricorda troppo un’edulcorazione che svilisce lo spirito in cambio di un’accettazione deleteria. La psichedelia è necessariamente eversiva, data la vocazione multiversale).
Lavorare con le piante richiede rispetto, ritualità, ascolto. E non parlo solo di quelle allucinogene, perché la richiesta che mi è stata offerta dalla Salvia, era proprio quella di portare una visione chiara sulla coscienza che riverbera nel mondo vegetale tanto quanto in quello animale e umano.
Ci stupiamo sempre, quando pensatori di frontiera ci portano nuove dimostrazioni dell’intelligenza vegetale, della comunicazione che avviene a livello del micelio, della personalità delle piante. Eppure si tratta di cose che noi, quando eravamo bambini, sapevamo. Cose che godevano di statuto di indubitabiltà. Insomma, la cosa più stupefacente, di fronte a un mondo vivente, è proprio il nostro stupore nel rendercene conto.
Lavorare con le piante (tutte) richiede la capacità di attivare il cosiddetto emisfero destro: l’immaginazione, il sogno, l’arte, la preghiera. Tutte funzioni spirituali che la nostra società tecnocratica ha ridotto a folklore o superstizione, mentre sono fondamenta epistemologiche in moltissime culture native.
Ed è per questo che sì, il tempo del solstizio è un ottimo momento per raccogliere vegetali e produrre medicine (tendenzialmente nate per conservare i principi attivi fuori stagione).
La notte di San Giovanni e il solstizio
Il contesto in cui ci siamo ritrovati non è casuale. È un momento potente, liminale, in cui la luce tocca il suo apice e si apre una proverbiale, forse ormai un po’ scontata, porta tra mondi. Porta tra diversi livelli di coscienza. Non è un caso che l’opera di Shakespeare da cui il convegno ha tratto il nome sia popolato di esseri fatati. Si tratta degli antichi spiriti europei, il “nostro” animismo, che si è conservato nonostante tutto, fin da tempi antichissimi. La venerazione per gli spiriti dei luoghi è stato osservata ai tempi del politeismo, ma a ben pensarci, rievocando le varie “madonne della neve”, le “stelle del mare” e le apparizioni mariane presso le fonti sacre, addirittura nei tempi del cristianesimo.
Nel folklore europeo, la notte di San Giovanni (24 giugno) era (ed è) considerata una notte “magica”: le erbe raccolte in quest’epoca sono più potenti, e i rituali con fuoco e acqua servono a proteggere, purificare, benedire. Un’usanza è quella di danzare intorno al fuoco notturno indossando corone di iperico, che all’alba vengono lanciate sui tetti delle case per proteggerle dalle tempeste - un effetto della magia simpatica in cui il fiore, memoria terrestre del Sole, sconfigge il cattivo tempo.
Ma oltre al fuoco, anche l’acqua è una delle protagoniste della festa. In apertura ho citato - con una nota un po’ polemica, ma ironica - la guazza di San Giovanni. La tradizione vuole che si lascino in ammollo tutta la notte erbe aromatiche e fiori, soprattutto rose. All’alba del 24 giugno, prima che sorga il sole e faccia evaporare la rugiada che nella notte si è depositata nel catino, ci si lava con l’acqua fiorita per eliminare influenze negative, proteggersi dal malocchio e trovare marito.
Il dominio del rito, nella medicina Maya, è primario. Ogni malattia è considerata il precipitato nella materia di uno squilibrio che proviene da altrove. Rivolgersi alle erbe significa essere già in ritardo sulle naturali e basilari operazioni di igiene simbolica: di quali pensieri, immagini, relazioni mi sto nutrendo? Mi sto purificando con la contemplazione? Quando ho smesso di pregare?
È stato emozionante riscoprire che questi riti antichi non sono poi così lontani dalle cerimonie che conduco con le comunità Maya. È come se ci fosse un sottofondo condiviso: un sapere del corpo e dell’anima che precede la divisione tra logica e spirito.
La preghiera è medicina
Anche la scienza lo confermerebbe: la preghiera, la meditazione, l’intenzione modificano la fisiologia. Attivano il sistema immunitario, riequilibrano il sistema nervoso, creano uno stato di rilassamento profondo. Autori come Jon Kabat-Zinn e Herbert Benson lo hanno documentato.
Non serve “credere” in spiriti per beneficiare di questi effetti. È sufficiente entrare in uno stato di apertura. L’esperienza, quando è sincera, parla da sola. Ed è qui che mi ha invitato a camminare la Salvia, a questo punto dell’incontro, che non poteva terminare che con un’esperienza diretta e pratica della cosmovisione in azione. Come consigliato dal compianto erborista Stephen Harrod Bunher, che con i suoi esperimenti ha dimostrato che le piante producono più principio attivo, se informate verbalmente dell’intenzione di raccoglierle per farne medicina, ci siamo diretti nell’orto della countryhouse Terraluna, avvolti dalle fragranze della santolina, della salvia, dell’alloro, della lavanda, dell’elicriso. Abbiamo ricevuto il benvenuto dal biancospino, con i suoi frutti ancora acerbi, dal tasso barbasso, che si ergeva in tutti i due metri di splendore erbaceo. Abbiamo pregato, raccolto pochi petali, poche foglie, una ciotola d’acqua, e tornati alla sala conferenze abbia messo tutto in infusione nell’acqua.
È la pratica dell’acqua lustrale, così come la insegnano i Maya del Belize. L’acqua pregata e fiorita viene spruzzata con il soffio o con un mazzo di fiori nel vajnabal, l’arcobaleno che secondo la visione dei Maya Tzotzil avvolge il corpo umano (aura diremmo in occidente, facendo venire i brividi a qualunque medico) e il vapore così creato va in qualche maniera a ricostituire la luminosità propria dell’essere umano.
Ovviamente non esiste nessuna tecnica scientifica che permetta di vedere il vajnabal (anche se ricordo la professoressa di fisica che alle superiori mi diceva: “Le cosiddette foto dell’aura, non sono altro che il risultato dell’eccitazione del campo elettromagnetico umano!” - cosa che mi faceva pensare che la scienza stesse confermando, anziché sconfessando, la presenza dell’alone energetico intorno al corpo, ma non sono un fisico, quindi non vado oltre). Non esiste un modo scientifico per determinare se una persona è dotata di arcobaleno, né lo stato di salute dell’arcobaleno stesso. Abbracciando l’empirismo, però, possiamo affermare che, nell’atmosfera del rito, dopo essere stati aspersi di acqua lustrale, le persone confermano di essersi sentite meglio. Così come si sono sentite meglio le generazioni di donne e uomini che all’alba del 24 giugno, lavandosi con la rugiada di San Giovanni, si sono sentite meglio, anche se non esistono studi di fisica sul malocchio (studi di psicologia sì, però!).
La medicina del futuro sa di passato?
Le celebrazioni del solstizio si moltiplicano di anno in anno, prendendo forme sempre differenti e in contesti differenti. Alcune sono spudoratamente pagane, altre mantengono un sotto-testo antropologico, in cui si vogliono mettere in contatto la cultura occidentale con quelle native. Altre vogliono mettere in dialogo più anime che sopravvivono nonostante il paradigma dominante, l’emisfero destro del cervello e quello sinistro, il processo analogico e quello razionale, il medico e la strega.
Quello che viene proposto non è un ritorno naïf all’età dell’oro. Semmai è un accordarsi sul ritorno all’età dell’oro. La profezia - arte per la quale i Maya sono diventati noti, ma in una forma equivocata - tutto sommato, non è che questo. Cosa vogliamo veder sorgere, oltre l’orizzonte del tempo che possiamo contemplare? Cosa desideriamo celebrare al solstizio? A quale credenza e percezione vogliamo aderire? Perchè non crederci, tutti insieme? È un invito a rientrare in contatto con il sacro che ci circonda. A riconoscere che la natura non è un oggetto inerte, ma una maestra vivente.
Possiamo integrare modernità e spiritualità.
Possiamo creare una cultura nuova, non antropocentrica ma ecocentrica.
E lo possiamo fare partendo da qui: da un’erba, da un rito, da una preghiera.

